Il rapporto genitori – figli: il punto di vista psicologico.

                      

 Il rapporto tra genitori e figli riveste un’importanza cruciale per la crescita dell’individuo; tale influenza dipende dal fatto che è proprio attraverso questa relazione che si scoprono elementi fondamentali della vita che diventeranno un punto di partenza, nonché di riferimento per il futuro della persona.

In Psicologia ci sono diverse teorie importanti che descrivono la centralità dei genitori in ambito relazionale, cognitivo ed emotivo. Una delle teorie più conosciute e più apprezzate in ambito psicologico, e che in un certo senso costituisce la base degli studi in questo ambito, è la teoria dell’attaccamento di J.Bowlby. Essa descrive in maniera semplice, come la relazione tra un individuo e chi si prende cura di lui, ovvero il “caregiver”, rivesta un’importanza fondamentale non solo nella sua crescita e nel suo benessere psico-fisico, ma anche nel modo in cui questo individuo si relazionerà con il mondo e con i futuri partner. La capacità di fornire sicurezza al bambino, e di conseguenza di creare un attaccamento sicuro, costituisce la base, per l’adulto per approcciare con fiducia al mondo; una madre e un padre che riescono a trasmettere fiducia, costanza, che nonostante la lontananza fisica garantiscono una presenza emotiva, creano una relazione positiva, d’amore con il loro piccolo.

Altri autori importanti, quali Spitz e Harlow, che possiamo considerare i precursori di questa teoria, hanno fatto degli esperimenti in questo ambito, e hanno verificato che la lontananza emotiva dei caregiver, causa un malessere emotivo nel piccolo; a tal proposito Spitz parla di “depressione anaclitica”, proprio per definire una situazione di malessere, tristezza e in alcuni casi, morte, in bambini privati delle cure genitoriali. Il secondo autore citato, Harlow, attraverso degli studi condotti sui cuccioli di scimmia, ipotizzò la presenza di un legame che andasse oltre il semplice bisogno di nutrimento, ma che implicasse vicinanza, accudimento, calore. Non è dunque la presenza “fisica” o “materiale” a garantire l’affetto, bensì la vicinanza emotiva. Psicologica a permettere un sano sviluppo psico-fisico del bambino.

La relazione tra genitori e figli è importante, non solo perché, come abbiamo visto, costituisce la base, per le future relazioni, ma è anche importante perché permette al bambino di avere un “ritorno” sulla propria immagine di sé. In che modo si costruisce questa immagine? Sono diversi gli elementi che intervengono in questo senso: le risposte dei genitori ai comportamenti del bambino, che possono far emergere in lui delle domande “sono importante”?, “sono degno d’amore?”, “merito delle attenzioni?”; infatti anche determinate parole, aggettivi utilizzati per descriverlo influiscono sulla costruzione che il bambino farà di sé stesso. Le scelte, che vengono prese dai genitori riguardo le attività da svolgere, i giochi, i compiti da fare, sia quando il bambino è d’accordo, sia in caso contrario, sono tutte situazioni che influenzeranno la costruzione della personalità del bambino. Anche successivamente questo rapporto è importante per la costruzione dell’identità del ragazzo, ad esempio in adolescenza, che è per definizione una fase “critica”, di transizione e di passaggio, in cui da un lato il ragazzo sente il bisogno di emanciparsi, quasi di “scappare”, ma dall’altro lato ha bisogno di un porto sicuro in cui ritornare per sentirsi protetto e amato. Dunque anche in questa fase c’è bisogno che la famiglia sia presente il più possibile per aiutare il ragazzo a perseguire il suo sviluppo in maniera armonica.

Un passo indietro: come viene definito il concetto di famiglia?

Con il termine famiglia, si intende il primo ambiente, la prima “agenzia di socializzazione” in cui l’individuo è inserito, è il primo luogo in cui l’individuo inizia a confrontarsi, ad avere un impatto con la realtà sociale, dunque è quello che può influire, soprattutto nei primi anni di vita, ma anche in seguito, alla formazione della personalità, dell’identità, e dei propri ruoli sociali. La famiglia è dunque, un luogo di condivisione, dove si acquisiscono regole di comportamento, idee, valori, possiamo dire che è il nucleo centrale che influisce sulla crescita dei figli. Anche i una società sempre più complessa, come quella attuale, anzi, come direbbe il sociologo Bauman, una società “liquida”, in cui si perdono le connessioni tra gli individui, si ha un venir meno dei legami sociali, la famiglia, rimane il nucleo centrale della società.

La comunicazione: un ingrediente fondamentale per una buona relazione tra genitori e figli. I genitori moderni, rispetto a quelli di altre generazioni, sono molto più elastici ed empatici; nonostante ciò, le dinamiche e i problemi di interazione tra due mondi così lontani, distanti, restano alquanto difficili. Una prima questione che appare rilevante, riguarda proprio il ruolo genitoriale: sembra che le madri e i padri di oggi vivano il loro ruolo con la costante paura di commettere uno sbaglio, in costante conflitto tra l’essere troppo severi o troppo permissivi, tra il “viziare” o non dare abbastanza attenzione. Da pare dei figli invece, si osserva come essi sviluppano il desiderio di essere amati e accolti, richiedendo l’approvazione dei loro genitori, mentre questi ultimi hanno paura di dire qualche “no”.

Una possibile soluzione, o quanto meno, una “strategia” per ridurre lo stress da educatore è attuare una buona comunicazione. Come prima cosa è utile pensare che in quanto genitori, è perfettamente normale commettere degli errori; ammettere i propri limiti non vuol dire perdere credibilità agli occhi dei ragazzi, ma vuol dire accettarsi come esseri umani, con tutta la complessità di cui siamo fatti. La comunicazione, inoltre, non deve essere “a senso unico” ma è fatta di diverse parti interagenti, in cui ci deve essere un reale ascolto e una reale comprensione. Un genitore empatico è colui che accoglie le problematiche dei propri figli, che li ascolta, che non sminuisce i loro problemi, ma che trova sempre un modo per aiutarli , comprenderli e ascoltarli in modo autentico.

Un’altra “funzione” genitoriale importante è quella di favorire la consapevolezza emotiva dei propri figli, accogliere le loro emozioni, dar loro un nome, e soprattutto non far vivere ai ragazzi le emozioni come qualcosa di sbagliato. Un’altra soluzione può anche essere quella di richiedere una consulenza psicologica genitoriale per un confronto più professionale, laddove ci siano situazioni problematiche e difficili da gestire.

Infine, un ruolo importante che hanno avuto, soprattutto negli ultimi anni, all’interno del rapporto genitori-figli è quello dei nuovi media; la rete e le nuove tecnologia hanno cambiato di molto il paradigma della comunicazione, e della relazione favorendo l’isolamento e incrementando una illusoria percezione di essere sempre connessi. A tal proposito è fondamentale che i grandi imparino questo linguaggio, che apprendano come usare le nuove tecnologie, per stare vicini ai propri i figli, e affiancarli in questo “territorio” che appare sempre più minaccioso. Infine, è importante dire che tra adulti e ragazzi non devono mancare mai la comunicazione e il dialogo; anche all’interno della coppia, il confronto deve essere sempre presente.  Per educare in maniera efficiente ed efficace serve accordo, servono regole chiare, confini, tra ciò che si può fare e ciò che non si può fare, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, stare accanto ai ragazzi, esprimendo amore e offrire in ogni momento un modello positivo.

Riferimenti bibliografici.

Lis, A., Stella S, Zavattini G.C., (1999). Manuale di psicologia dinamica. Il Mulino; Bologna.

Bowlby, J (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Raffaello

Cortina Editore; Milano.

Siti internet: sociologicamente.it; crescitapersonale.it

L'energia e il lavoro sul corpo

La bioenergetica può essere definita come un modo di comprendere la personalità
dell’individuo in termini dei suoi processi energetici (Lowen, 2004). Tali processi,
ovvero la produzione di energia attraverso la respirazione e il metabolismo e la
scarica di energia nel movimento, sono le funzioni basilari della vita. E’ proprio la
quantità di energia di cui si dispone, e l’uso che se ne fa a determinare il modo in cui
si risponde agli eventi della vita. La bioenergetica è anche una forma di terapia che
associa il lavoro sul corpo, con quello sulla mente, per aiutare le persone ad affronta
le proprie problematiche emotive, ma anche per ampliare il proprio potenziale di
provare piacere e gioia di vivere. Un assunto fondamentale è che il corpo e la mente
sono funzionalmente identici, cioè quello che succede nella mente riflette quello che
succede nel corpo e viceversa. Secondo questo approccio terapeutico dunque, la
mente e il corpo si possono influenzare reciprocamente : ciò che si pensa può
influenzare il modo in cui si sente e ciò che sentiamo, può influenzare il nostro
pensiero. Attraverso la terapia bioenergetica, il terapeuta si propone di aiutare la
persona a tornare ad “essere con il proprio corpo” (Lowen, 2004, pag. 35) e a godere
della vita in modo pieno. Il risalto dato al corpo , comprende la sessualità, ma anche
funzioni più “basilari”, come quelle di respirare, muoversi, sentire ed esprimere sé
stessi. Infatti, quando una persona non respira a fondo, riduce il suo sentire e riduce la
vita del corpo e, se non si muove liberamente limita il corpo stesso. La bioenergetica,
si propone dunque di aiutare i pazienti, a riconquistare la sua natura primaria, la
condizione di libertà, intesa come assenza di repressione delle sensazioni interiori. Si
propone inoltre di aiutare gli individui ad aprire il cuore alla vita, all’amore e ai
sentimenti.

La bioenergetica, si basa sull’opera di Wilelm Reich ( Dobrzcynica 1897-
Lewisburg 1957) il quale intorno agli anni 40, tenne un corso alla New School For
Social Research di New York sull’analisi del carattere. Tale corso, verteva
sull’identità funzionale tra il carattere di una persona e il suo atteggiamento corporeo,
o armatura muscolare. Il pensiero di Reich si presenta come un punto d’incontro tra
Freudismo e Marxismo, favorendo la nascita di un filone della psicanalisi che potremmo definire “ereticale”.

Il tipo di terapia proposto da Reich fu la
“vegetoterapia analitica del carattere”, che consisteva nella mobilitazione delle
sensazioni, attraverso la respirazione ed altre tecniche corporee che attivano i centri
vegetativi liberando energia all’interno del corpo (Lowen, 2004). La bioenergetica,
conobbe ulteriori sviluppi intorno agli anni 50, quando Lowen, allievo e seguace di
Reich, decise di distaccarsene per divergenze teoriche. Infatti Lowen non
condivideva le ipotesi del suo maestro sull’energia orgonica, e decise di articolare in
modo più sistematico il fondamentale approccio somatico al problema delle nevrosi. I
principi reichiani fondamentali su cui si basa il lavoro di Lowen sono due: l’identità
funzionale tra rigidità e funzione psicologica e rigidità e tensione muscolare; la
correlazione tra inibizione emotiva e psichica e insufficienza delle funzioni
respiratorie. Rispetto al lavoro di Reich, Lowen ha sistematizzato una tipologia
caratteriale più articolata. Ciò che è innovativo è proprio la chiave di lettura, che le
singole parti del corpo possono rivelare circa le problematiche dello sviluppo
emozionale dell’individuo. Obiettivo fondamentale della terapia bioenergetica è,
come in quella reichiana, il rimettere l’individuo in contatto con il proprio nucleo
centrale positivo, con una maggiore focalizzazione però sulla necessità di un
ripristino, di un miglior contatto ed adattamento dell’individuo con la propria realtà
sia interna che esterna.

Il concetto di carattere

Un altro aspetto fondamentale all’interno dell’analisi bioenergetica è il concetto di
carattere; nel pensiero di Lowen, le strutture caratteriali nevrotiche, sono determinate
da esperienze traumatiche verificatesi nella prima infanzia dell’individuo, e
generalmente possono manifestarsi, sottoforma di “mancanza di vitalità” e di
conseguenza mancanza di aggressività (Lowen, 2003). Egli individua cinque strutture
caratteriali che rientrano nel quadro nevrotico; esse originano da un bisogno negato
durante l’infanzia, e ognuna presenta delle specifiche caratteristiche sia per quanto
riguarda l’aspetto corporeo, che per ciò che concerne gli aspetti energetici: il carattere
schizoide, il carattere orale, il carattere psicopatico, il carattere masochista e infine il

carattere rigido (che comprende i sotto caratteri isterico, fallico-narcisista e passivo-
femminile). Il primo carattere analizzato da Lowen è il carattere schizoide. Il termine
“schizoide” deriva da “schizofrenia” e indica la presenza nella personalità di tendenze
di tipo schizofrenico (Lowen, 2004, pag. 131). In questo tipo di carattere è presente,
più precisamente, la tendenza a: ritirarsi verso l’interno, rompendo o perdendo il
contatto con il mondo e con la realtà esterna; a scindere in due il funzionamento
unitario della personalità, ovvero una frattura tra il pensiero del soggetto e il sentire.
Nel carattere schizoide si evidenzia una forte tendenza a evitare le relazioni intime e
sentimentali che sono molto difficili da stabilire per via della mancanza di carica
nelle strutture periferiche. In questo tipo di carattere è il diritto fondamentale
dell’essere umano a venire minacciato: il diritto fondamentale di esistere, di
incarnarsi; di conseguenza è presente nell’individuo schizoide un’insicurezza
ontologica di fondo (Laing, 2010). Questo carattere origina da un ambiente materno
ostile, poco accogliente, rifiutante, in cui il bambino si sente “minacciato” già nella
fase intrauterina. Il carattere orale trova il suo diritto negato nell’”avere bisogno di”,
dunque la negazione fondamentale riguarda il bisogno di nutrimento. I fattori
eziologici, descrivono un caregiver non accudente, distratto, che ha cresciuto il figlio
con un bisogno insaziabile: se il bambino cadeva, i genitori lo ignoravano, in un
clima di trascuratezza. La persona con questo tipo di carattere crede che il mondo lo
deve risarcire (siccome non ho auto, ora il mondo mi deve dare). , perciò si pone
come quello che deve dare tanto poiché in realtà vuole ricevere tanto per sé. E’ un
esperto della richiesta indiretta e pretende che il mondo sappia cogliere i propri
movimenti interni; inoltre vede il mondo diviso in buono e cattivo, come da piccolo
sentiva il seno buono e il seno cattivo della madre. Il carattere psicopatico è
caratterizzato da una struttura molto complessa; l’essenza dell’atteggiamento
psicopatico è la negazione dei sentimenti, e ciò si discosta dal carattere schizoide che
invece si dissocia dai suoi sentimenti. Nella personalità psicopatica l’io diventa ostile
al corpo e alle sue sensazioni, soprattutto quelle sessuali. In tutti i caratteri psicopatici
è presente un iperinvestimento di energia nella propria immagine, in contrasto con

una funzione normale dell’io che è quella di appoggiare il corpo nella sua ricerca del
piacere, non di sovvertirla a favore di un’immagine dell’io (Lowen, 2004). Un altro
aspetto di questo tipo di personalità è il suo bisogno di potere, di dominio e di
controllo e questi bisogni possono essere soddisfatti in due modi: la prepotenza e la
sopraffazione oppure l’insidia attraverso un approccio seduttivo. I fattori eziologici
riconoscono un caregiver che dà affetto solo se il figlio raggiunge gli obiettivi che ha
stabilito; è un bambino che viene manipolato dai genitori a discapito dei suoi bisogni
più autentici; sente l’impotenza, ma la causa la attribuisce agli altri. Il carattere
masochista rappresenta, secondo Lowen, uno dei più difficili caratteri da trattare in
terapia, in quanto, dopo un superficiale miglioramento, si presenta una ricaduta nei
vecchi sintomi e nelle antiche lamentele, e questo modello tende a reiterarsi nel corso
dell’analisi (Lowen, 2003). Il diritto fondamentale negato del masochista è quello di
“Imporsi, di potersi affermare, perciò ha il bisogno di trovare il suo spazio attraverso
la provocazione, alla quale si associano emozioni quali il senso di colpa, la vergogna,
l’umiliazione. Probabilmente è stato un abmbino eccessivamente nutrito, anche dal
punto di vista affettivo a cui però non è stata data la possibilità di scegliere secondo i
propri desideri, e di dire no . Questo carattere si sviluppa all’interno di un gioco di
potere con la madre per ottenere la propria indipendenza, ma il genitore non si
arrende, dunque in preda alla volontà materna e per non deluderla, rinuncerà ai propri
diritti esistenziali. Il masochista è una persona illusa, crede di poter tenere tutto il
mondo sulla sua schiena come il mito di Atlante. E’ una persona molto accogliente ,
quasi disarmante, con un forte bisogno di socializzare, si considera di poco valore si
svaluta ripetendo a sé stesso che ancora non è il suo momento e che ci sarà tempo per
avere ciò che gli spetta. Rispetto all’eziologia di questa struttura difensiva,
probabilmente troviamo una forma di disapprovazione o derisione da parte del
genitore, ma anche un ipercontrollo rispetto alle funzioni del nutrimento e dell’
evacuazione, che ha portato l’illusione che bisogna sempre meritarsi l’amore dei
genitori compiacendoli (Lo Iacono, Sonnino 2008). Infine, il carattere rigido,
presenta la sua problematica nel diritto fondamentale di “poter amare sessualmente”,

amare pienamente ed essere amato. La risposta negativa dell’ambiente è di freddezza
o rifiuto durante il periodo della pre-scolarizzazione, si sviluppa, nello specifico
durante la fase edipica, dai 3 ai 6 anni di vita, quando il bambino scopre il piacere
sessuale e l’attrazione verso il genitore del sesso opposto. (Marchino, L. ) Rispetto
agli altri caratteri, è quello più evoluto: si tratta di un bambino che nei primi tre anni
di vita, ha ricevuto accudimento, amore, affetto, riconoscimento, libertà di giocare e
di muoversi. Nel corso dell’infanzia, dunque, non ha subito forti traumi, per questo
motivo, la sua posizione difensiva è meno grave rispetto agli altri, e possiede una
buona quantità di energia per evolvere. E’ un bambino che si è sentito tradito dal suo
spontaneo protendersi verso l’amore e dalla sua naturale ricerca di piacere erotico. Il
suo vero trauma affonda le radici nella sensazione che qualcosa è sbagliato in lui e
rifiuta i suoi stimoli sessuali, perché non sono stati approvati dai genitori; per
adattarsi a questa condizione, il piccolo agirà nella vita con cuore, ma in modo
contenuto e sempre sotto l’incessante controllo dell’io.

Applicazioni cliniche.

A livello pratico, le innovazioni introdotte da Lowen consistono in due esercizi
fondamentali, definiti “Grounding” e “Bend over”. Il grounding, ovvero
“radicamento”, si sviluppò in seguito all’osservazione, da parte di Lowen che la
maggior parte dei suoi pazienti erano privi di contatto con la realtà, ovvero mancava
il senso di avere i piedi saldamente piantati a terra (Lowen, 2004). Questo esercizio
consiste nell’adottare una posizione in piedi (invece di quella sdraiata usata da
Reich), divaricare le gambe, voltare le punte dei piedi verso l’interno, piegare le
ginocchia, arcuando la schiena in modo da mobilitare la parte inferiore del corpo. In
questo modo ci si sente più ancorati al suolo, inoltre si rende più profonda la
respirazione addominale. L’esercizio del bend over, invece, consiste nel mantenere
questa posizione coi piedi ancorati al terreno, e nel piegarsi in avanti lentamente,
sfiorando il pavimento con la punta delle dita, sempre mantenendo le ginocchia

leggermente flesse. Secondo Lowen, in questo modo si accresce la sensazione
provata nella gambe, fino a che si avverte una vibrazione. (Lowen, 2004). Un’altra
innovazione apportata fu l’utilizzo di uno sgabello per la respirazione. Lowen aveva
avvertito che era un problema ottenere che i pazienti respirassero in modo pieno e
profondo; in particolare aveva osservato la tendenza ad arcuare la schiena all’indietro
sulla spalliera della sedia, dopo essere stati seduti per un certo tempo. Così, notò che
far sdraiare i pazienti con la schiena sullo sgabello poteva avere l’effetto di stimolare
la respirazione, portando un effetto liberatorio, anche senza eseguire gli esercizi
appositi. Per quanto riguarda i caratteri, di cui abbiamo parlato poc’anzi, è importante
individuare la struttura caratteriale del paziente, tenendo conto del fatto che non esiste
una struttura caratteriale univoca, ma spesso diversi tratti coesistono nella persona.
All’interno della terapia, si lavora sulla consapevolezza, al fine di aiutare il paziente a
comprendere il proprio funzionamento, esplorando insieme al terapeuta le proprie
emozioni, che spesso sono “imprigionate” nel corpo e agiscono in modo inconscio.
Dunque si aiuta il paziente sia con la terapia verbale, che con appositi esercizi
bioenergetici per “sbloccare” le emozioni inespresse e apportare un senso di
benessere psicofisico.

Riferimenti bibliografici

Laing, R.D. L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale. (2010). Giulio Einaudi
Editore.
Lo Iacono, A. & Sonnino, R.Respirando le emozioni. Psicofisiologia del benessere.
(2008). Armando Editore
Lowen, A. Bioenergetica. (2004). Feltrinelli Edizioni.
Lowen, A . Il linguaggio del corpo. (2003). Feltrinelli Editore: Milano.
Dr. Gianpiero Strangio Psicologo

 

come riconoscere un narcisista

 

Le caratteristiche tipiche del narcisismo sono l’egocentrismo, una preoccupazione eccessiva per il proprio valore personale, il bisogno di ottenere riconoscimento smodato da parte degli altri, la mancanza di empatia,  nonché di autentico interesse per gli altri, e un deficit nelle relazioni interpersonali. Da come possiamo notare, si tratta di un quadro complesso, in cui possiamo riconoscere due aspetti principali del narcisismo: quello “grandioso” in cui predominano i sentimenti di superiorità e la presenza di un io “ipertrofico”, un senso di unicità, importanza; quello  “vulnerabile” in cui troviamo emozioni di vergogna e umiliazione. In quest’ultimo caso, la ricerca di elogi e ammirazione è sostituita da ritiro ed evitamento delle situazioni in cui la persona potrebbe sperimentare rifiuto. Diversi autori (Caligor et al.  2015, Dimaggio et al. 2003), hanno rilevato delle fluttuazioni tra sentimenti di grandiosità e vulnerabilità, dunque non troviamo una staticità, bensi’ caratteristiche mutevoli, dinamiche, nel tentativo di salvaguardare la propria autostima. Insieme al narcisismo, si possono trovare altri disturbi in comorbilità, ovvero il disturbo di personalità antisociale, borderline, istrionico e schizotipico (Levy et al, 2009). Inoltre troviamo una possibile comorbilità con il disturbo bipolare (Vieta et al., 2000) e con abuso di sostanze .

Diversi autori hanno parlato di narcisismo, tra essi ricordiamo Heinz Kouth, il quale, fa un passo in avanti rispetto alla psicoanalisi classica, sostituendo il concetto di salute psichica proposto da Freud come “capacità di amare e lavorare” con “capacità di amare e lavorare con successo”. Con questa espressione si individua una sorta di narcisismo sano, ovvero come parte integrante delle capacità positive e sane, appunto, della persona. Per quanto riguarda invece, la nostra analisi, che pone l’accento sul versante patologico e clinico, Kouth, in “Narcisismo e analisi del sé”(1977) sostiene che ci sono diversi quadri clinici all’interno del narcisismo: le psicosi, gli stati limite, le personalità schizoidi, i disturbi narcisistici della personalità, i disturbi narcisistici del comportamento. Un altro autore di rilievo è Otto Kernberg, il quale definisce il narcisismo secondo tre prospettive: sano, infantile e patologico. Quest’ultimo consiste in uno specifico disturbo di personalità che origina da un iperinvestimento della libido sul sé ; ma il sé non è integrato, bensì presenta una “scissione” tra le rappresentazioni idealizzate del sé e degli altri. Il livello più drammatico di tale disturbo si ha quando la grandiosità del paziente si mescola ad una grande quota di aggressività. Abbiamo in questo caso il cosiddetto Narcisismo Maligno, in cui oltre al senso di sé grandioso, troviamo un sentimento di piacere provato infliggendo dolore e paura agli altri. Il Narcisista maligno è chiamato anche manipolatore o “narcisista perverso”, proprio per gli elevati livelli di ostilità con cui si rapporta agli altri e per il suo tentativo di “disumanizzare” le relazioni. Secondo Kernberg, alla base di questo disturbo ci sono sentimenti di odio e aggressività, che rappresentano appunto i nuclei centrali, nonché la spinta motivazionale che potrebbe portare il soggetto a compiere anche atti estremi come ad esempio omicidi. In particolare, l’odio deriva dalla rabbia, ovvero l’affetto in cui spesso viene canalizzata la pulsione aggressiva e che spesso si manifesta con comportamenti violenti contro il sé o l’altro. A volte l’odio, può essere talmente forte da oscurare altri aspetti legati all’aggressività come l’invidia e il disgusto. In particolare, ancora secondo Kernberg, il Narcisismo maligno si colloca in un’area limite tra disturbo Narcisistico di personalità e Disturbo Antisociale di personalità e presenta le seguenti caratteristiche:

Un comportamento antisociale.

Aggressività egosintonica o sadismo rivolto verso gli altri o verso il se stessi (tentativi di suicidio, automutilazioni trionfanti).

Un forte orientamento paranoide.

Il Narcisismo secondo il DSM-V

 

Per porre diagnosi di Disturbo Narcisistico di Personalità, in base al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, il paziente deve presentare i seguenti criteri clinici:

  • Un modello persistente di grandiosità, necessità di adulazione, e mancanza di empatia

Questo modello è evidenziato dalla presenza di cinque o più delle seguenti caratteristiche:

  • Un'esagerata, infondata sensazione della propria importanza e dei propri talenti (la grandiosità)
  • Preoccupazione con fantasie di successi senza limiti, influenza, potere, intelligenza, bellezza, o amore perfetto
  • Convinzione di essere speciali e unici e di doversi associare solo a persone di altissimo livello
  • Un bisogno di essere incondizionatamente ammirati
  • Una sensazione di privilegio
  • Sfruttamento degli altri per raggiungere i propri obiettivi
  • Mancanza di empatia
  • Invidia degli altri e convinzione che gli altri li invidino
  • Arroganza e superbia

Inoltre, i sintomi devono avere inizio nella prima età adulta.

 

Quando il Narcisista chiede aiuto?

E’ importante rilevare che nel Disturbo Narcisistico di Personalità, il soggetto chiede aiuto non in virtù di una consapevolezza della propria sofferenza, ma nel momento in cui avverte sintomi depressivi o ansiosi che non è più in grado di gestire. Spesso si hanno difficoltà nelle relazioni interpersonali, che appaiono problematiche, troviamo infatti, situazioni di rifiuto o abbandoni, vissuti di insoddisfazione della propria vita, scarso riconoscimento dal punto di vista professionale, che portano l’individuo a una sensazione di sconfitta e fallimento. La depressione del narcisista deriva da una marcata discrepanza tra le aspettative del soggetto e la realtà esterna. In alcuni casi i soggetti narcisisti, come detto precedentemente,  avvertono un vissuto di rabbia che può sfociare in aggressività auto ed etero-diretta sia verbale che fisica. Troviamo, inoltre, un’ideazione paranoide, per cui gli altri sono invidiosi, della loro superiorità, li vorrebbero danneggiare, sminuire o disprezzare. Nonostante tali livelli di sofferenza, per il soggetto narcisista è molto difficile rivolgersi a un terapeuta, ma anche manifestare il proprio disagio, dunque possiamo trovare un atteggiamento rigido, distaccato, rispetto alle proprie problematiche. Ovviamente siamo di fronte ad un atteggiamento difensivo in cui vi è difficoltà ad accettare ed accedere ai propri stati interni, nonché di riconoscere le proprie emozioni, desideri e bisogni. Bisogna, infine, specificare, che le persone che presentano tale disturbo, sono diverse tra loro, e presentano diversi livelli di gravità clinica e di funzionamento sociale. Diverse ricerche hanno evidenziato che , più che la diagnosi, altri fattori sono rilevanti, quali: la gravità dei sintomi, la compromissione sociale e sono proprio queste problematiche a determinare spesso una diagnosi infausta.

Concludiamo infine, con una riflessione dal punto di vista sociale e culturale. Intorno agli anni settanta, altri autori importanti come Alexander Lowen o Cristopher Lasch, hanno messo in rilievo, oltre ad aspetti di carenze da parte dei caregiver,  gli aspetti sociologici, filosofici, se vogliamo più “sociali” legati al tema del narcisismo. In particolare Lasch, ha evidenziato come sia proprio la nostra società, in particolare la società occidentale, orientata al produrre, all’apparire, a discapito dei valori e dell’autenticità della persona, a incentivare questo tipo di problematica. Ne emerge, dunque un soggetto in preda all’ansia, alla ricerca di una gratificazione immediata, e che vive, dunque in uno stato di inquietudine e di insoddisfazione perenne.

Dr. Giampiero Strangio, Psicologo

 

Riferimenti Bibliografici

Caligor, E., Levy, K. N., & Yeomans, F. E. (2015). Narcissistic personality disorder: diagnostic and clinical challenges, American Journal of Psychiatry, 172, 415-422.

 

Dimaggio, G., Petrilli, D., Fiore, D., & Mancioppi, S. (2003) Il disturbo narcisistico di personalità: la malattia della grande vita. In G. Dimaggio & A. Semerari “I Disturbi di personalità. Modelli e trattamento” pp. 161-200, Laterza Editori.

 

Kouth, H. Narcisismo e analisi del sé. (1977). Bollati Boringhieri.

Lasch, C. La cultura del narcisismo. (1981). Bompiani.

Levy, K. N., Chauhan, P., Clarkin, J. F., Wasserman, R. H. & Reynoso, J. S. (2009). Narcissistic pathology: Empirical approaches. Psychiatric Annual, 39(4), 203-213.

Lowen, A. Il narcisismo. L’identità rinnegata. (2013). Feltrinelli. Trad. it Stefano Magagnoli.

Vieta, E., Colom, F., Martinez-Aran, A., Benabarre, A., Reinares, M., & Gastò, C. (2000). Bipolar Il disorder and comorbidity. Comprehensive Psychiatry, 41, 339-343.

 

Come gestire un attacco di panico

 

Definiamo gli attacchi di panico.

 

Possiamo definire un attacco di panico, come all’interno di un “continuum” d’ansia, che va dal “normale” al patologico: l’ansia ritenuta sana, è quella che ci permette di svolgere le normali attività quotidiane, mobilita energie, ci permette di portare a termine i diversi compiti della giornata, mentre negli attacchi di panico l’ansia diventa intensa e ingestibile, compromettendo, dunque la quotidianità della persona. Distinguiamo inoltre, l’attacco di panico singolo, che si può manifestare ad esempio in seguito ad un evento stressante,  dal disturbo di panico, dove aumenta la frequenza degli attacchi di panico

L’attacco di panico si manifesta con un’intensa e inappropriata paura, in assenza di un pericolo reale, accompagnata da sintomi somatici e cognitivi; questi ultimi sono ad esempio: paura di impazzire o di perdere il controllo, è di breve durata, di solito dura meno di dieci minuti, e raggiunge rapidamente l’apice (Bartoletti, A. 2021). Nello specifico, gli attacchi di panico, prevedono l’attivazione del sistema simpatico, dunque coinvolgono il corpo e presentano i seguenti sintomi:

  • Palpitazioni o tachicardia
  • Sudorazione
  • Brividi o vampate di calore
  • Tremori fini o a grandi scosse
  • Parestesie
  • Dispnea o sensazione di soffocamento
  • Sensazione di asfissia
  • Dolore o fastidio al petto
  • Nausea o disturbi addominali
  • Sensazioni di sbandamento, instabilità, testa leggera o senso di svenimento
  • Derealizzazione o depersonalizzazione
  • Paura di perdere il controllo o di impazzire
  • Paura di morire

 

La caratteristica degli attacchi di panico è la loro imprevedibilità, dunque, arrivando in maniera improvvisa, innescano nella persona, sentimenti di vulnerabilità e debolezza, apportando un cambiamento significativo nella vita dell’individuo.

 

Neurofisiologia degli attacchi di panico.

 

I segnali provenienti dagli organi di senso, vista udito e tatto, raggiungono prima il talamo, visivo, uditivo e olfattivo. Se l’informazione viene percepita come sconosciuta rappresenta una minaccia, viene trasmessa all’amigdala (una sorta di “centralino” d’allarme), che etichetta lo stimolo, riconoscendolo come pericoloso. Si attiva, dunque il sistema nervoso simpatico, facente parte del sistema nervoso autonomo, indipendente dalla nostra volontà. Esso è formato da due vie, simpatico e parasimpatico. Il Sistema Nervoso Simpatico, ha la finalità di preparare l’organismo ad attaccare o a fuggire da una situazione minacciosa. La reazione di paura innescata rappresenta un meccanismo fisiologico sofisticato e immediato, che in condizioni di normalità, rende le persone vigili e attive quando si trovano o pensano di trovarsi di fronte a una minaccia. Nel nostro cervello abbiamo un’altra area implicata in questi meccanismi, la corteccia, che rappresenta la parte più “razionale” deputata alla pianificazione esecutiva, all’attenzione, alla riflessione. Essa può correggere le strutture emozionali cerebrali, più antiche e automatiche, intervenendo nell’attenuare “falsi allarmi”, riducendo la risposta soggettiva all’ansia. Quando siamo esposti a stimoli minacciosi o percepiti come tali, si attiva l’amigdala (che innesca una reazione di attacco-fuga). Superato l’evento, la corteccia torna ad operare al suo livello ottimale. Se questo allarme viene attivato tante volte, la persona diventa reattiva, impulsiva, appare confusa e disorientata. Gli attacchi di panico, sono il risultato di interpretazioni catastrofiche di eventi che vengono considerati erroneamente, come segnali di disastro imminente. Secondo Clark (1986), vi è una sequenza di eventi, in una successione circolare  che conduce agli attacchi di panico e ne determina il mantenimento. Questo modello è utile per spiegare due aspetti dell’attacco di panico: l’aspetto dell’autosuggestione che caratterizza il quadro clinico di chi soffre di tale disturbo e la caratteristica dell’imprevedibilità, che insorgerebbero spontaneamente in seguito alla comparsa di sensazioni improvvise. Secondo questa teoria, il soggetto che soffre di panico, può ritrovarsi in questo circolo vizioso, a partire da ogni suo punto; o partendo dallo stimolo scatenante, o avvertendo direttamente alcune sensazioni somatiche legate all’arousal e convincendosi della pericolosità di queste sensazioni “rinforzando” le rappresentazioni catastrofiche ad esse connesse. Il frequente ripetersi di episodi di ansia e di panico può indurre la persona a temere che queste si ripresentino, sviluppando aspettative rispetto alle condizioni o alle situazioni legate a tali sensazioni .Le aspettative, quindi, diventano a loro volta attivanti anticipando la sensazione sgradevole o aumentando l’attenzione del soggetto verso le sensazioni giudicate spiacevoli e/o pericolose (Kirsch, 1999).  Questo meccanismo produce un abbassamento della soglia di percezione di esse, con il risultato che saranno percepite più facilmente e con maggior intensità (Wells, 1997). In questo circolo vizioso, non dimentichiamo il ruolo del nostro Sistema Nervoso Centrale; come abbiamo detto in precedenza, il panico presenta un correlato neurofisiologico, ovvero amigdala, corteccia prefrontale e ippocampo, dove si consolida l’apprendimento dell’attacco di panico. Nell’attacco di panico, inoltre, la persona sperimenta una forte paura, precisamente la “fobo-fobia” ovvero la paura della paura, per cui la persona potrebbe mettere in atto delle strategie di evitamento, soprattutto dei luoghi o delle situazioni in cui si è verificato inizialmente l’attacco di panico.

 

La diagnosi degli attacchi di panico

 

Secondo il Manuale Diagnostico e statistico dei disturbo mentali (DSM-V), per fare diagnosi di attacchi di panico, devono essere soddisfatti i seguenti criteri:

  1. Presenza di attacchi di panico inaspettati e ricorrenti, dei quali, almeno uno, seguito da un mese o più, di preoccupazione persistente di avere altri attacchi, e/o di preoccupazione relativa alle implicazioni o alle conseguenze dell’attacco, seguiti da una significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi di panico.
  2. Presenza  o assenza di agorafobia
  3. Gli attacchi di panico non devono essere causati dagli effetti fisiologici di una sostanza (per esempio da abuso di una droga) o di una condizione medica generale (esempio ipertiroidismo).
  4. Gli attacchi di panico non devono essere causati da un altro disturbo mentale come ad esempio la Fobia Sociale.

 

Come affrontare gli attacchi di panico?

 

E’ importante, innanzitutto, contestualizzare l’attacco di panico, ovvero inserirlo in un’attenta analisi della storia della persona, del momento di insorgenza, delle relazioni sociali in cui la persona si trova, nonchè della storia familiare che caratterizza appunto l’evoluzione e la crescita del paziente. Uno dei possibili approcci terapeutici per trattare l’attacco di panico, è l’approccio strategico. Esso focalizza l'attenzione, su come il problema funziona e si mantiene nel presente, e sull’individuazione di strategie disfunzionali che vengono messe in atto per affrontarlo. La persona viene “guidata”, mediante esperienze condotte dal terapeuta a costruire quelle abilità e risorse individuali per gestire il problema e superarlo efficacemente. Inizialmente, il terapeuta, effettua un’attenta analisi delle soluzioni disfunzionali, aiutando la persona a individuarle, “bloccarle” e a renderle funzionali. Il paziente ha la possibilità di sperimentare una serie di esperienze emotive concrete, adattate al sistema percettivo-reattivo della persona stessa e dello specifico problema, atte a favorire l’acquisizione dell’autonomia e della capacità di gestire la realtà. Questo cambiamento della percezione della realtà favorisce un aumento della consapevolezza, la quale giunge in seguito all’esperienza fatta. Dunque, la possibilità per il paziente di fare effettivamente qualcosa di diverso, rispetto ai suoi schemi abituali di pensiero e di comportamento, favorisce il benessere emotivo e il miglioramento della qualità di vita. Alla base di questo tipo di intervento c’è l’idea di “conoscere un problema mediante la sua soluzione”, cioè conoscere la realtà che ci circonda conoscendo le strategie che possono cambiarla. Secondo Nardone e collaboratori, la terapia breve e strategica, si occupa specificatamente degli attacchi di panico, i quali rappresentano l’area di maggior efficacia terapeutica. Vi sono dei protocolli di intervento costruiti ad hoc sulla tipologia di problema collegato al panico; essi prevedono specifici stadi di lavoro: apertura del gioco, sblocco della persistenza, consolidamento e autonomia personale, chiusura del gioco.

Nella prima fase vi è la definizione del problema, ovvero il problema viene analizzato nella sua specificità; insieme alla creazione di un’alleanza terapeutica. Successivamente vi è una focalizzazione sulle tentate soluzioni fallimentari, mette in atto nel tentativo di risolvere il problema, si indaga dunque su come la persona percepisce la realtà, evidenziando le modalità disfunzionali e favorendo modalità più funzionali.

Nella seconda fase, si cerca di ridefinire un primo cambiamento e incentivare un ulteriore cambiamento progressivo, si utilizzano strategie ben calibrate per bloccare le tentate soluzioni disfunzionali, e intervenire sulla rigidità del sistema di percezione della realtà della persona.  Nella terza fase, quella del consolidamento si misurano i risultati ottenuti, si consolidano i risultati o si modifica la strategia e si favorisce l’acquisizione di modalità di percepire e reagire alla realtà più flessibili delle precedenti. In questa fase è importante, sia a livello comunicativo, che a livello operativo, favorire l’autonomia della persona, consentendole di operare scelte efficaci. Nell’ultima fase, la “chiusura del gioco”, si arriva a un raggiungimento completo dell’autonomia della persona, si pone una maggiore enfasi sulle risorse e le responsabilità del paziente, e infine vi è la chiusura dell’intervento, che prevede delle sedute di controllo a tre mesi, sei mesi e ad un anno di distanza.

 

Dr. Gianpiero Strangio

Psicologo. Terapia Breve

 

 

Riferimenti bibliografici.

Bartoletti, A. (2021). Panico, Ansia e panico. Guida strategica per aspiranti coraggiosi. Franco Angeli. Milano.

Clark, D.M. (1986). A cognitive approach to panic. Behavior Research Therapy. 24; 461-470

Kirsch, I. (1999). How expentancies shape experience. Washington, DC: American Psychological Association Pres.

Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (APA, 2013)

Nardone G., Portelli C. (2015). Cambiare per conoscere. L’evoluzione della terapia breve strategica. Tea edizioni.

Nardone, Watzlawick, (2005). Brief Strategic Therapy. New York Jason Aronson.

Wells, A. (1997). Cognitive Therapy of Anxiety Disorder: A practice manual and conceptual guide. Chichester: Wiley

 

Intelligenza Emotiva

                                         

Esiste una felicità interna ed esterna e noi possiamo alimentare l'una e l'altra grazie alla consapevolezza di quello che ci accade nel momento in cui lo stiamo vivendo, proprio come quando sentiamo l'odore del pane fresco quando abbiamo fame o beviamo un bicchiere di acqua fresco sotto il caldo sole estivo. Ma quanti tipi di felicità esistono? Possiamo stimolare i nostri sensi con il ritmo di una danza che ci dona un piacere legato alla sincronia dei movimenti. Poi c'è il piacere legato alle relazioni. Pensate all'innamoramento o alla nascita di un figlio. C'è il benessere che proviamo nell'aiutare o nel cooperare con gli altri o nel vincere una competizione. C'è chi produce la sua felicità sognando ad occhi aperti e dedicandosi al cinema, all'arte alla scultura. Chi impara a vincere le proprie paure e chi ricerca nella spiritualità il contatto intimo con se stesso. Anche i ricordi o le aspettative generano un intimo senso di piacere, pensate a chi si libera di una sofferenza o di un dolore sopportato da lungo tempo. Ma esiste anche un piacere disfunzionale che ci porta a godere nell'infliggere dolore a se stessi e agli altri. La scienza ci dice che circa il quaranta per cento della nostra felicità deriva dal nostro patrimonio genetico. È l'altro sessanta per cento? Secondo uno studio condotto nel 2008 la personalità, in particolare il fattore estroversione è importante per riuscire a vivere una vita piena e lontana da nevrosi come ansia, timori, sbalzi d'umore e tensioni che aumentano la possibilità di entrare in depressione. Ma se non siete estroversi la buona notizia è che esiste un modo per bloccare l'effetto della personalità e riprenderci il nostro benessere. Un introverso potrà fare mille corsi di meditazione o di comunicazione o sforzarsi di vincere la propria paura e questo è un bene, ma la cosa che gli farà fare il salto di qualità è allenare la sua intelligenza emotiva.

Peter Salovey e John D. Mayer, delle Università statunitensi di Yale e del New Hampshire nel 1990, la descrissero come «l’abilità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie e altrui, di distinguerle tra loro e di utilizzare tali informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni». Non è facile riconoscere le proprie emozioni, soprattutto mentre le stiamo provando, figuriamoci imparare a gestirle, che non è una semplice questione di autocontrollo. Un altro fattore importante è l'empatia verso le emozioni che provano gli altri, che non significa entrare in simbiosi con il mio partner o il mio amico, ma capire cosa sta provando per poterlo aiutare a mente fredda.
La persona poco dotata di intelligenza emotiva tende ad accusare gli altri, o le circostanze e rimane travolto dalle proprie disgrazie, perché non è in grado di decodificare ciò che sta vivendo. Ritiene che i suoi problemi siano degli ostacoli, fastidi che non gli appartengono. La persona dotata di intelligenza emotiva sarà in grado di sperimentare anche le emozioni negative e riflettere sul modo migliore per superare le circostanze che le hanno causate. La difficoltà diventa il terreno su cui misurarsi e sarà vissuta come un'opportunità di crescita e di cambiamento. Questo aumenterà la propria autostima e la propria sensazione di autoefficacia. Per questo quando provate un'emozione forte come la rabbia dovete iniziare a riflettere sul fatto che voi non siete la vostra rabbia, come dicono i buddisti, ma c'è qualche cosa che innesca questo meccanismo. Riconoscere questo meccanismo è già il primo passo per superarlo.

Quali sono le domande che devi farti per capire se sei felice? La prima è se hai un obiettivo da perseguire al mattino o se senti la monotonia della giornata. Quando ti svegli ti senti vivace e piena di energia? Sei costante in quello che fai o tendo a rimandare le cose? Hai delle passioni che ti rendono viva? Le tue relazioni sono soddisfacenti e hai delle persone che ti sostengono oppure ti relazioni con persone che ti buttano già? Quante persone ti ruotano intorno e ti chiedono consigli e da quante ti fai coinvolgere nelle loro storie? E allora come possiamo cambiare la nostra vita con l'intelligenza emotiva? Per prima cosa evita di interpretare ciò che gli altri fanno: se un amica non ti dà la giusta attenzione in un momento per te importante non devi subito pensare che non ti voglia bene, ma forse può essere una brutta giornata anche per lei. Ascolta con la giusta attenzione gli altri, ma stabilisci dei sani confini con le persone che tendono ad essere troppo invadenti. Inizia a manifestare il tuo dissenso con persone o situazioni che non ti piacciono. Ricorda che esprimere con determinazione il tuo punto di vista ti farà acquisire valore. Inizia a dire di no alle cose che non credi di riuscire a fare senza per questo sentirti in colpa. Se una amica ti racconta le sue difficoltà non lasciarti trascinare dal suo stato d'animo, ma osserva il problema dall'esterno e dalle dei consigli solo se te li chiede. Quando commetti un errore fanne tesoro perché questo è il miglior modo per apprendere e superare i tuoi limiti. Esprimi le tue emozioni positive. A volte basta un ti voglio bene per essere di aiuto ad una persona cara. Condividi solo con chi apprezza le cose che possiedi. Nulla è più sorprendente di un dono inaspettato. Prenditi cura del tuo corpo e coccolati almeno una volta al giorno. Accetta e ascolta le emozioni negative. E’ il miglior modo per non trattenerle dentro di te.

Daniel Goleman "Lavorare con l'Intelligenza Emotiva", 2018 - Ed. Bur Mondadori

Gian Luca Rosso "Raggiungere la felicità e preservarla", 2019 - Ed. ebook

Come faccio a capire se nella mia relazione mi comporto da crocerossina?

Dobbiamo capire bene in che modo ci relazioniamo con il nostro compagno! Erick Fromm distingue quello che è amore dipendente: “Ti amo perché ho bisogno di te” dall’amore maturo: “Ho bisogno di te perché ti amo”. Cosa mi spinge a comportarmi cosi e a ricercare sempre i bugiardi patologici? Sicuramente un partner amorevole e attento alle nostre necessità risulterà ai tuoi occhi come poco attraente e in alcuni casi noioso. Questo può dipendere dal fatto che forse non credi di meritare questa amorevolezza, probabilmente perché non sei stata abituata a riceverla. La tendenza è quella di vedere e desiderare dell’altro quello che a te manca! Il bugiardo patologico infatti ostenta sicurezza e indipendenza e all’inizio della relazione ti fornisce tutta la considerazione di cui hai bisogno e che non hai mai ricevuto. Purtroppo però questa è solo una strategia e in men che non si dica ti farà passare dalle stelle alle stalle. In questa condizione sentirai improvvisamente tutta la tua solitudine e il senso di abbandono che vivi dentro di te e sperimenterai il bisogno di attenzione che ti aveva fornito all’inizio. Questo è proprio il meccanismo che ti porterà a diventare una “dipendente affettiva”. Ti attaccherai ad ogni piccolo segnale di considerazione e finirai col giustificare anche i suoi gesti malsani. La tua idea prevalente intanto sarà quella di pensare che non ci sono alternative accettabili a quella attuale e vivrai in uno stato di costante angoscia per paura di essere abbandonata. Il tuo desiderio prevalente sarà quello di entrare in simbiosi e fonderti con “l’oggetto del tuo amore” per ricevere accudimento e sicurezza che non hai ricevuto da bambina, per questo delegherai la tua felicità a qualche bugiardo con la speranza che lui possa colmare tutto il tuo passato di deprivazione. Il problema è che in realtà la paura ti spinge a non attraversare il deserto interiore che vivi dentro di te, anche se sarebbe l’unico modo per poter trovare un’oasi che ti permetta di rinfrancarti e vivere una nuova vita, ritrovando la strada per raggiungere la tua indipendenza. Il paradosso di questa situazione, poi, è quello che sei stata proprio tu a ricercare una relazione ad alto rischio di rottura, per confermare quello che ti è stato insegnato: “che non sei degna”. Questo sentirti immeritevole ti porta a pensare che se lui ha degli atteggiamenti svalutativi e in alcuni casi aggressivi nei tuoi confronti: “in fondo lo fa per il tuo bene”. Lo fa per il tuo bene ad allontanarti da tutte le tue amiche, ad isolarti e ad allontanare tutti gli affetti da te. Questo alla fine ti renderà una perfetta martire, una martire che rinuncerà alle sue esigenze e ai suoi bisogni per dedicarsi anima e corpo all’unica fonte di verità; il bugiardo appunto, nella falsa aspettativa che un giorno verrai ricompensata per questo martirio. Ma in fondo perché dovresti esplicitamente chiedere una ricompensa per quello che fai? Non è vero che l’altro sa benissimo di cosa hai bisogno? Questa purtroppo è la dolce bugia che ti racconti da sola, perché in realtà non hai compreso che “il tuo lui” non ha neanche mai preso in considerazione le tue esigenze. Se all’inizio era così dolce e amorevole utilizzava questa strategia come specchietto per le allodole. Immagino che tutto ciò che ti sto dicendo non fa altro che alimentare la tua rabbia. La rabbia che non riesci ad esprimere perché troppo a lungo sei stata abituata a contenerla e a rivolgerla verso di te. Oppure la rabbia che hai espresso qualche volta esplodendo, ma che poi ti ha fatto sentire in colpa e sempre più affamata di amore.

Nella mente della crocerossina c’è sempre l’idea di salvare qualcuno. Questa dissonanza cognitiva nasce dall’esigenza di essere accolta, di colmare il buco emotivo che ha dovuto subire nella relazione con i suoi genitori. L’illusione che tramite il suo sacrificio potrà riuscire a tirare fuori l’altro dal vortice in cui si trascina, il più delle volte, finisce per trascinare lei stessa in quel ciclone. La paura di guardare dentro se stessa e di attraversare il proprio dolore, la porterà a dedicarsi all’altro con estrema perizia. Questo non farà altro che alimentare una co-dipendenza, in cui lei tenta controllare il bugiardo e quest’ultimo farà di tutto per non perdere questo controllo mantenendo la sua condotta disfunzionale. Infatti se all’inizio il bugiardo si comporterà in modo equilibrato, non tarderà a manifestarsi la sua tendenza a reiterare i suoi comportamenti “sbagliati”, addossando poi la colpa proprio alla crocerossina, troppo controllante e invadente.

Accade qualche volta che la crocerossina diventi una “crocerossina guerriera” e il rapporto di sottomissione con il partner si inverte. E’ lei a prendere in mano la situazione, nel momento in cui vede che il bugiardo inizia a “perdere colpi” vivendo una situazione di disagio. Si trasforma in una donna svalutante e aggressiva, ma questo non le impedisce di slegarsi dalla relazione. Anzi la relazione diventa il contenitore in cui riversare tutta la propria ansia e insoddisfazione verso se stessa, per aver fatto delle scelte sbagliate e per aver portato avanti un rapporto che non riesce più a sostenere, ma da cui non riesce a slegarsi. Questa insoddisfazione viene continuamente riversata verso il compagno che diventa il bersaglio di giochi sadici e vendicativi. Come al solito la comprensione della propria sofferenza e della debolezza e dei limiti dell’altro può essere il veicolo che la condurrà fuori da questo meccanismo disfunzionale permettendole di recuperare la propria autostima e la propria autonomia.

Ma cosa accade se la crocerossina si incontra con un bugiardo evitante? Sicuramente grazie alla sua empatia riconoscerà il bisogno di amore e di considerazione che gli è stato negato e quindi il suo spirito di assistenziale si eleverà alla massima potenza. Cercherà in tutti i modi di far emergere in lui quella parte negata e nascosta, quella ferita narcisistica che gli è stata inflitta dal genitore rifiutante. Come ha dimostrato Bowlby nella sua teoria dell’attaccamento, il tipo di relazione che si instaura tra madre e bambino è fondamentale per la crescita maturativa ed emozionale del futuro adulto. Se il bambino si sente rifiutato inizierà a sviluppare una personalità di tipo insicuro/evitante. Per sopperire alla mancanza di affetto da parte della figura di accudimento si allontanerà dal sentire emozionale evitando accuratamente ogni contatto con i sentimenti. La crocerossina non si fermerà dunque alla prima difficoltà, ma più sentirà questa lontananza sentimentale e più si impegnerà affinché lui eviti di guardare dentro se stesso riconoscendo le sue emozioni. Se sarà fortunata qualche volta ci riuscirà e questa sarà la conferma che dovrà insistere. Si instaurerà quindi un tira e molla che durerà in alcuni casi anche una vita intera nella speranza che riemerga una parte di quel dolore e di quel sentimento ferito impossibile da contattare.

Se poi la crocerossina ha la sfortuna si imbattersi in un bugiardo narcisista allora i guai si moltiplicano. Infatti alla stregua dell’evitante il narcisista oltre ad essere rifiutato è stato anche svalutato dalla figura di accudimento. Per questo la sua ossessione per la fama, il potere e il prestigio, ossia il riconoscimento interno che non gli è stato mai concesso, verranno prima di tutto. Potrebbe promettere di tutto per conquistare la fiducia della crocerossina, ma in nessun caso sarà in grado di soddisfare le sue aspettative. Il suo modo per riconoscersi si attiva solo attraverso la reputazione e il ruolo che riveste all’interno della società, da cui accetta solo lusinghe. Se viene contraddetto tende ad escludere, perché non può sopportare l’umiliazione di essere ancora disconfermato.

Un ultimo caso è quello dell’incontro con il bugiardo psicopatico. Questa è la forma più pericolosa di relazione, poiché quest’ultimo tipo di personalità tende ad essere etero-aggressiva. Purtroppo i casi di cronaca rivelano un aumento esponenziale di violenze perpetrate nei confronti del sesso femminile. Per questo è fondamentale che anche la crocerossina più accanita tracci una linea di confine oltre la quale non si deve avventurare.

Giusti e L. Azzi “Neuroscienze per la psicoterapia”, 2013 - Ed Sovera

M.G. Cancrini L. Harrison "Due + due non fa ancora quattro", Roma 2002 - Ed. Armando Editore

M. Borgioni "Dipendenza e controdipendenza affettiva", Roma 2015 - Ed. Alpes

 


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